Quando “imparare” e “comportarsi bene” riguarda gli adulti

I genitori devono essere i primi a considerare seriamente i problemi scolastici dei figli, quando gli esiti sembrano sconsolanti. Si tratta di stanare quelli che sono gli interessi dei figli, anche quando sembrano una palude in cui è difficile riconoscere tratti di autenticità: partite alla play station, “messaggiare” compulsivo, uso dei cellulari come artefatto adatto ad alzare una barriera per isolarsi dagli adulti. Sono questi i tratti che più allarmano i genitori e talvolta gli insegnanti, ma sono anche i punti da cui si deve partire se si vogliono agganciare gli adolescenti. Nella constatazione allarmata di molti genitori che non riescono a comprendere come mai i figli siano così vincolati a questi nuovi artefatti digitali, c’è anche l’implicita rinuncia a riconoscere il nuovo e le potenzialità, positive della cultura digitale e soprattutto la scarsa fiducia che ognuno possa davvero imparare, impegnarsi e prendere gusto se solo riconosce il senso di quello che gli viene richiesto di fare. Ampliare la propria concezione dell’imparare da parte dei genitori e farsene portavoce rispetto alla scuola vuol dire anche accogliere una prospettiva che la comunità europea persegue, quella cioè di considerare le diverse fonti di acquisizione (formali, come la scuola, non formali come tutte le occasioni autonomamente scelte per imparare qualcosa, ad esempio, un corso di chitarra o di inglese, e informali vale a dire quelle spontanee e non intenzionali presenti nella vita quotidiana) come importanti al fine di implementare le diverse competenze e acquisirne di nuove. Porre attenzione perciò ai diversi campi di interesse dei figli è anche un modo per avviarli verso una concezione più ampia e complessa dell’imparare, in primo luogo riconoscendo e valorizzando le diverse fonti di acquisizione. 

di Anna Maria Ajello