Alcuni neonati si ritraggono dal mondo umano e dagli scambi con esso per fissarsi su altre percezioni. Questi bambini sono stati oggetto di numerosi studi clinici e sperimentali fin dagli anni Settanta, ossia da quando l’autismo infantile, descritto per la prima volta da L. Kanner (1943), è stato meglio conosciuto e affrontato, e da quando è stato dimostrato che più precocemente le sindromi autistiche vengono individuate e trattate, minore è il rischio che il bambino si avvii verso un arresto dello sviluppo. Il termine di “evitamento relazionale” ha il vantaggio di corrispondere perfettamente alla descrizione clinica delle sindromi in questione, senza peraltro pregiudicare la loro evoluzione. Non si può escludere che si tratti delle prime manifestazioni di un’evoluzione in senso autistico, ma potrebbe anche trattarsi di uno stato depressivo del lattante, di un ritardo mentale o, in un minor numero di casi, di una sindrome causata da un qualche dolore. È dunque possibile avere la sorpresa di veder uscire il bambino dalla sindrome di “evitamento relazionale” e vederlo riprendere il corso dello sviluppo normale. In ogni caso, il trattamento precoce è indispensabile, senza attendere la conferma di un’evoluzione autistica, la quale è molto più facile da prevenire che da curare. Spesso sono soltanto l’assenza dello sviluppo del linguaggio o le difficoltà di inserimento scolastico a svelare la gravità dei disturbi e a spingere i genitori a rivolgersi a uno specialista. In questo modo molto tempo prezioso è perduto. Per ovviare a questi ritardi, neuropsichiatri infantili e ricercatori si sono impiegati per individuare degli strumenti che permettano una diagnosi più precoce. La fonte primaria di informazioni sono ovviamente i genitori. Sono loro che notano per primi qualche anomalia nello sviluppo dei loro bambini.
di Didier Houzel
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